domenica 15 ottobre 2017

Oi sepolcroi, I

Lamento di Paracùlogo Marpiònide a Eunèbete di Chiaràtos.
I, vv. 1-66

Ove si narra del malcelato dolore di Paracùlogo e dei dubbi del prolisso Eunèbete.

***

All'ombra dei cipressi dietro l'urbe
che fan la guardia ai taciti sepolcri,
al sommo della solatìa collina
d'ove lo sguardo vàgola e sconfina
oltre il pianoro e il rivo e giunge al mare,
Eunèbete sedeva ad osservare
non la rara bellezza che Cibele
avea stillato a pieno in quella piaggia,
ma il suo maestro che libava lento,
con santa parsimonia e mano saggia,
un suo prezioso vino - nutrimento
di se medesmo e delle care spoglie -
sopra l'antica stele della moglie.
Non mostrava però quell'uomo santo
le sue strazianti, amare e certe doglie,
(di ciò s'avvide attonito l'alunno)
ma invece d'affidarle al triste pianto
le celava in un ghigno un po' contratto
che stravolgeva il volto addolorato
facendolo sembrare soddisfatto.
"Indizio certo d'un valente cuore,
che domina" si disse "aspro dolore!"
Commosso da cotanto sentimento,
Eunèbete s'alzò dal suo giaciglio,
mosso dal desiderio di sapere
la natura dei moti ch'al suo aio
donavano un aspetto tanto gaio
- lieto il sorriso e illuminato il ciglio -
mentre il suo cuore, lo sapeva bene,
si molcea nel dolore e nelle pene!
«Ti prego, Paraculogo, concedi
requie a quel duolo che t'opprime il volto
e pur s'ancor lo strazio il cor ti stringe
siedi e racconta ciò ch'al duolo attinge
e versa nei tuoi occhi un pianto asciutto;
ché nel racconto si consola il lutto.
Siedi e racconta a me, ch'io son bramoso
d'apprendere i tuoi santi interni moti;
ma non ti sembri il fare mio curioso
mosso da stravaganti intendimenti,
che s'io ti chiedo è per fornirti il destro
di farti di me alunno buon maestro.
Siediti all'ombra di quel sacro mirto
caro alla dea che le virginee forme
celò per breve tratto coi suoi rami
allorquando la spuma la depose
sui lidi citerei. Di lì si mosse
la callipigia, e diede amore al mondo,
e n'ebbe in cambio amore, e n'ebbe pene;
come ben sa chi amò, ch'amore e duolo
vanno allacciati sul medesmo suolo.
Siedi e racconta, ché l'antico tronco
che d'ombra ricoprì l'amata dea
si che né nume ne scorgesse il ciglio
né mortale - che fu lo strazio, quando
dell'incestuosa Mirra il figlio pianse,
tale che ne segnò l'eburnee gote -
del duolo di Citerea fe' tesoro
e dà agli amanti identico ristoro.
Raccontami, ch'ormai ti sei seduto
e le palme che muovi al mio cospetto
parlano più di quel che non hai detto
e dunque, come chiedi, starò muto».
Così si tacque Eunèbete prolisso,
mentre il rossor gli ricopria le gote,
d'aria e di suoni finalmente vòte.



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