Sono entrato in possesso di un manoscritto inedito di Dante Alighieri.
In realtà potrebbe anche trattarsi di un apocrifo: gli esperti a cui l'ho sottoposto non mi hanno dato ancora una risposta certa. In ogni caso, si tratta di un componimento di 117 versi che costituisce la continuazione del canto XXIII dell'Inferno, il canto degli ipocriti, e che nelle intenzioni dell'autore doveva costituire probabilmente un canto a sé.
Al momento non intendo rivelare le circostanze grazie alle quali il manoscritto è pervenuto nelle mie mani. Voglio però condividerne il contenuto. Per questo motivo, pubblico oggi i primi 66 versi del componimento, mentre tra qualche giorno pubblicherò i 51 versi successivi.
In seguito, se ci riuscirò, pubblicherò un commento.
Per comprendere le vicende narrate, bisogna ripartire dal canto XXIII dell'inferno (di cui ripropongo qui gli ultimi 10 versi). Ci troviamo nella bolgia degli ipocriti, che Dante e Virgilio raggiungono dopo una rocambolesca fuga dalla bolgia precedente, sfuggendo per un pelo ai diavoli che li inseguivano. Qui i due poeti incontrano i frati gaudenti Loderingo degli Andalò e Catalano dei Malavolti che, al pari degli altri dannati di questa bolgia, sono condannati a camminare sotto il peso di cappe dorate esternamente, ma foderate di piombo all'interno. Virgilio chiede ai frati quale sia il percorso da seguire per continuare il viaggio; si scopre così che uno dei diavoli della bolgia precedente gli aveva dato indicazioni false, e Virgilio incassa lo sfottò di Catalano e si allontana irato.
Da questo punto ha inizio la vicenda narrata nel manoscritto.
***
Inferno, Canto XXIII, versi 139-148
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
141 colui che i peccator di qua uncina».
E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra' quali udi'
144 ch'elli è bugiardo, e padre di menzogna».
Appresso il duca a gran passi sen gi,
turbato un poco d'ira nel sembiante;
147 ond'io dalli 'ncarcati mi parti'
dietro alle poste delle care piante.
Manoscritto inedito, versi 149-214
Ma tosto ch'ebbi fatto il primo passo
150 il piede manco non si fece avante
ch'io udi' una voce che mi fe' di sasso.
Lo duca mio si volse allora a retro
153 e disse: «Vedi tu colà quel lasso
appena giunto in questo luogo tetro
come s'agita e strepita e singhiozza
156 e vuol moversi avanti e a lato e 'n dietro
e invece si ristà, sì come cozza
l'olla sul carro tra le sue sorelle.
159 Volgiti e la sua foga capitozza
e le parole tue sian giuste e belle
ché tu non sai, mentr'io già mi scorrubbio.
162 Fa ch'egli ti disveli sue novelle
e ti disgravi tosto d'ogni dubbio».
Così mi volsi, e vidi un novo manto
165 candido come fiore di marrubbio
o di sambuco o primula o d'acanto
ma nero dentro e lercio più che pece,
168 ed apparia alla foggia gravo tanto
ch'a un suo passo altrui ne facea dece.
Tanto rimasi allora sbigottito
171 nel vedere cotal del vôto in vece
che l'intelletto mio ne fu affiochito
in quello spirto che membra governa
174 perch'io ristetti e più non mossi dito.
Ma l'un de' due di quella nova terna
«Non ti crucciare più» disse «o Gualtiero,
177 non ti dolere della tua lacerna,
ed anzi, come devi, vanne fiero,
ch'essa è cotanto nova e bella e bianca
180 che ti fa di noi tutti condottiero!».
Allora verso noi quell'alma stanca
l'occhio menò, e 'l strinse e lo fe' acuto,
183 s'accorse di mia carne, e ch'era franca,
e mosse la sua voce e disse: «Aiuto!».
Qual è quei che dal sonno suo si desta
186 per nova voce, e sentesi sperduto
che sua permutazione fu sì lesta
sì ch'egli è già nel mondo e in quello ancora
189 e non sa verità s'è quella o questa;
ma po' si riconforta in poco d'ora
che omai dalla menzogna 'l ver discerne.
192 Tal divenn'io a quella voce allora;
ma pur turbato, ch'a le mie lucerne
quel ch'era sogno ratto apparve vero.
195 «O tu che le tue bianche vesti etterne
movendo vai costì per l'aere nero»
i' dissi lui allor, «s'a le tue spalle
198 il novo carco esser possa leggero
mentre che vai per l'affollato calle
de l'ipocriti tristi, non ti spiaccia
201 dirne che se', e come in questa valle
venuto sei per indossar guarnaccia».
Allora torse li occhi quel dannato
204 e nel cappuccio sprofondò la faccia;
poi disse piano: «Chi m'abbia mandato
in questo luogo desolato e scuro
207 io non lo so, ma certo si è sbagliato,
c'è di certo un errore, son sicuro!
Perché mi trovo vivo in questo inferno
210 non riesco a immaginarlo, te lo giuro:
amo il prossimo mio d'amor paterno,
ché padre sono, e mai diedi molestia
213 a nessun uomo, e lo sa il Padreterno...»
Ma il duca mio gridò: «Silenzio, bestia!».
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