Nella prima parte abbiamo visto arrivare nella bolgia degli ipocriti un nuovo dannato di nome Gualtiero. Ma, a parte questo, non sappiamo molto altro di lui, se non che indossa una cappa bianca (e perciò diversa da quelle dorate degli altri ipocriti) e che Virgilio non lo trova molto simpatico. La seconda parte del manoscritto ci svelerà qualche altro particolare della sua vicenda,
A proposito del manoscritto, posso dire che è stato ritrovato a Roma non molto tempo fa. E' probabile, inoltre, che anche l'ipocrita Gualtiero sia vissuto a Roma: lo si deduce da alcune note segnate a margine dei versi, sebbene scritte con calligrafia diversa e quasi sicuramente di epoca successiva.
Per ogni altra questione, rimando al commento che sto preparando e che spero di pubblicare presto.
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Manoscritto inedito, versi 215-265
Poi si volse ver me sdegnato in viso
216 e disse: «Questo fiore di modestia,
quest'innocente di virtute intriso
sì ch'ei non teme come testimonio
219 di nominare il re del paradiso,
cela nel petto un cuore di demonio.
Le sue parole sonano stonate
222 sì come sona falso un falso conio:
per loro è tra le anime dannate».
Così si tacque allora il giusto duca
225 come colui che le parole irate
pel troppo sdegno a quiete riconduca.
E quel malnato di color solingo
228 piegò la fronte ed allungò la nuca
ma tenne l'occhio vivido e guardingo.
«Costui dovea tenere altro consiglio»
231 soggiunse allora frate Loderingo
«pria che provasse ad affrancare il figlio
da una vergogna sol da lui avvertita
234 che gli tingea le guance di vermiglio
più di quanto lordasse la ferita
di sangue al sangue suo l'orrenda mano».
237 «Ahi Gualtiero, che il figlio sodomita»
riprese allora frate Catalano
rivolto al novo lasso del terzetto
240 «per questo errore sol ti parve strano,
che più ti vergognasti del suo letto,
temendo al nome tuo recasse infamia,
243 e non del sangue sparso per diletto
di chi sedotto avea, sì come Lamia
nuocer solea con il medesmo incanto
246 di Libia ai figli, e di Mesopotamia».
Allora un alto grido uscì dal manto;
poi bieco ricomparve il volto uccio
249 con li occhi grossi e carichi di pianto
e i denti stretti a trattenere il cruccio.
E avvegna che da noi fosser remote
252 le luci delle stelle, in quel cappuccio
vidi brillare leste sulle gote
due lagrime, e fermarsi sulla rena,
255 per ch'io dissi tra me: «Com'esser pote?».
E il duca mio: «Costui non soffre pena
etterna dei suoi mali in questa fossa
258 che la sostanza sua è pur terrena
e il peso che qui carca le sue ossa
grava di là sovra la sua coscienza
261 sì che capendo lui salvar si possa.
Volsi così quell'alta providenza
che salva chi si pente, e chi s'ostina
264 manda a Minòs ad ascoltar sentenza.
E allor costui l'accoglierà Caina».
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