giovedì 4 agosto 2016

Spoon River # 8. Clorinda (una guerriera)

Nel blog Vibrisse, Giulio Mozzi ha proposto un gioco letterario intitolato "Lettere delle eroine". Si tratta di immaginare una lettera, in versi o in prosa, che l'eroina di un romanzo (o di un poema, di un racconto, ecc.) scrive al suo partner.
Ho partecipato proponendo la lettera che Clorinda, eroina della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, scrive al suo spasimante Tancredi.
La Clorinda della Gerusalemme è un personaggio per certi versi misterioso, che non dice molto di sé; per questo mi è sembrato opportuno darle la parola. Clorinda si mostra così come una donna fiera delle sue singolarità, combattiva, indipendente, ribelle; ma nel contempo fragile, e in definitiva vittima di un destino già scritto (una sorte che condivide, se non con tutti gli esseri umani, almeno con tutti i personaggi letterari, inevitabilmente soggetti alla volontà del loro Creatore).
La vicenda di Clorinda, da lei stessa raccontata dopo la morte, si presta a essere inserita nella mia raccolta "spoon river", di cui costituisce l'ottavo episodio.
Maggiori informazioni sul personaggio di Clorinda si trovano qui.
I canti della Gerusalemme Liberata si trovano qui (la vicenda di Clorinda e Tancredi è raccontata prevalentemente nel canto III e nel canto XII).


***


O congiunzione d'astri, o scritto fato,
o volontà di nume, o forse nulla:
non so chi fu a decidere il mio stato,
cuore virile in corpo di fanciulla.
Pure, se tal motore mi fu dato,
mi fe' diversa già fin dalla culla:
figlia di pelle bianca e madre nera,
ebbi per balia una selvaggia fiera.

Io di sangue cristiano eppur nemica
a quel bizzarro dio piantato in croce;
femmina, e scambiai l'ozio e la fatica,
balsami e sangue, tenero ed atroce;
bella, ma il seno ascosto da lorica,
l'elmo a mutarmi l'armoniosa voce.
Io sempre estranea al mondo, fui diversa
finanche da me stessa, infine, e persa.

Prima di sprofondare nel tuo sguardo
non conobbi in amor niuna procella:
sovente saettava Amor un dardo
per gli occhi d'una dama o d'un'ancella,
e s'alcuna vincea 'l mio baluardo
non governava la mia cittadella,
ch'io tornava sovrana in poco d'ora;
né uomo mai poté farvi dimora.

Ma quell'oscura stella che mi volle
libera al mondo e schiava al mio destino
- o fosse il caso, o fosse un nume folle -
quel giorno mi guidò sul tuo cammino.
Mentre mi dissetavo a quelle polle
m'entrò nel core un diavolo aguzzino
che da quell'ora in poi mi tolse il fiato
pensando al modo in cui m'avei guardato.

Come sommessa a un sortilegio arcano,
sempre il tuo viso mi vedea davante;
soldato o duce, nobile o villano,
ognun pareva avesse il tuo sembiante:
ridea del tuo sorriso Solimano
e gli occhi tuoi mostrava in viso Argante.
Tremavo, ma la nova mia paura
tenea celata dentro l'armatura.

Attesi giorni. Poi vinsi il languore
quando mi fece specchio il mio cimiero.
«Or ti riscuoti, donna, ché il tremore»
mi dissi «non s'addice ad un guerriero».
Così recisi il mostro dal mio cuore
come più avante feci con Gerniero
quando, pel mio fendente, la sua mano
corse il declivio e si fermò nel piano.

Con nuova foga mi gettai nei campi
tra gli usberghi corruschi e lance e lame,
e tra fumi e scintille e polve e lampi
quel volto di cui avevo ancora fame
cercavo, e mi dicea «Non vo' che scampi,
non vo' ch'ei si sottragga alle mie brame,
che non d'amore sono, ch'io non voglio,
ma son di morte, ch'io so dare e soglio».

Percorsi i tristi campi in lungo e in lato
e infine t'incontrai. Ma quella pugna
che nel delirio avevo disiato
ecco che d'improvviso mi ripugna,
ecco che il tuo parlare disperato
ogni difesa dal mio core espugna
e fatta sasso ascolto te che chiedi:
«Eccoti il petto mio: or ché no'l fiedi?»

«Alzati, o mio signore» t'avrei detto
«ch'io non ti son, più che tu a me, minaccia,
alzati e ogni più lugubre sospetto
dalla tua mente, dal tuo cuor discaccia,
e se l'usbergo trarre vuoi dal petto
lascia ch'io sia colei che i nodi slaccia
e anch'io alle mani tue non porrò freno
finché al tuo petto s'unirà il mio seno».

Ma i motti miei rimasero non detti,
ché il tempo all'intenzion non fu bastante,
perché di cavalieri maledetti
giunse ratto un manipolo schiumante
e l'un di loro mi colpì, e perdetti
la vita no, che ti facesti innante
e ne deviasti il colpo e la baldanza,
ma la mia acerba gioia e la speranza.

Io, ch'al ferro e all'amor mi credea forte,
vidi allor che mia fede era illusoria!
«Non tocca a me il governo di mia sorte!
Ma se colui che ha scritto la mia storia
non v'ha vergato amor, ma invece morte...
che sia!, ma non disgiunta dalla gloria!»
Così pensai, ed al cristian bivacco
deliberai quel disperato attacco.

Alto era il rischio, e no'l volevo imporre,
ma Argante non lasciò ch'io andassi sola,
e al suo volere non mi seppi opporre.
Ma lui del suo valor non mi fe' schola,
ché io non fui, poi che bruciò la torre,
lesta a seguirlo via: col cuore in gola
rimasi esclusa alle richiuse porte.
Compresi e dissi: «Benvenuta, Morte!»

E la morte eri tu. Quando ti vidi
solo a seguir le malcelate forme
ed avanzar per i sentieri infidi
che mostravano chiare le mie orme,
di non poter sfuggire ormai m'avvidi
e al mio destino volli esser conforme.
Così mi fe' gagliarda, e «Cosa porte?»
ti chiesi. Rispondesti: «E guerra e morte».

E guerra e morte fu. Di quel duello
non rammento fatica né dolore:
se il corpo c'era, non così il cervello
che il primo non seguia nel suo furore.
Pure nella memoria rinnovello
quei novi gesti e il novo mio stupore:
quando tra le tue braccia mi stringesti,
quando il tuo ferro nel mio sen spingesti.

Una stanchezza prima mai provata
mi riempì dopo il mortale amplesso;
ma ti stavo vicina, e ne fui grata
come del più bel dono mai concesso.
Perciò, quando la vista ebbi annebbiata,
ti domandai d'aver con l'acqua accesso
a quel tuo sconosciuto paradiso:
per rivedere un giorno il tuo bel viso.

Ma non avrò, né avrai, questo conforto,
la verità, svelata, è cruda e triste:
se esiste un dio, gli abbiamo fatto torto,
ché un dio per cui si uccide non esiste.
La mia condanna è questo oscuro porto,
dove solo il ricordo ormai resiste;
ma ignoro quale nume me l'ha dato...
o congiunzione d'astri, o scritto fato.



3 commenti:

  1. Ho già commentato su vibrisse in modo sintetico, ora che ho raccolto la mascella da terra e fatto un giro sul tuo blog provo a esprimere il mio entusiasmo in modo più articolato. Mi colpisce come riesci a tenere insieme, in quello che scrivi, gli aspetti creativi e quelli tecnici. Quando i paletti (o le contraintes, come direbbero i francesi) sono così tanti (endecasillabo, schema di rime e economia semantica all’interno dell’ottava, linguaggio antichizzato, utilizzo, previsto dal gioco, di una materia non originale e limitante) il rischio di ridurre tutto a un esercizio meccanico è grande. La Gerusalemme Liberata, in particolare, si presta decisamente all’effetto rigido da “opera dei pupi”. Invece hai tirato fuori una Clorinda vagamente bisex e umanissima, fragile dietro la corazza di guerriera, e l’hai calata nel tempo di assurda crociata che viviamo anche noi, adesso. La cosa pazzesca è che il tuo testo è poeticamente credibile, riesce a dialogare con la Gerusalemme liberata e l’Antologia di Spoon Rivers (i nostri cuori rispondono a stelle che non vogliono saperne di noi) senza perdersi, l’ironia non sconfina nella parodia, e ha un po’ della grazia, della poesia malinconica di “Che cosa sono le nuvole?”. Deliziosa anche la figurina Liebig, che su vibrisse non c'è.

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    1. Grazie. Davvero non so che dire. Non sono bravo a gestire i complimenti, anche se mi fanno infinitamente piacere. Ho visto il tuo blog (complimenti, quello che fai è splendido!) e ho cercato di immaginare che genere di persona sei: come quando fai visita a una persona che non conosci ancora, e aspettando che ti raggiunga ti fanno accomodare nel suo studio, in mezzo ai suoi libri, e tu cominci a scorrere i titoli... Quello che ho visto mi è piaciuto, e dunque a maggior ragione apprezzo le belle parole che mi hai rivolto.
      Grazie ancora.

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  2. Mi piace immaginarti a curiosare tra gli scaffali. Spero che ci tornerai ogni tanto. Io qui ci verrò di sicuro. Grazie a te, ciao.

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