domenica 29 ottobre 2017

Oi sepolcroi, III

Lamento di Paracùlogo Marpiònide a Eunèbete di Chiaràtos.
III, vv. 132-190

Ove i dubbi di Eunèbete si infittiscono.

***

Qui tacque Paracùlogo, notando
la fronte corrugata del suo allievo;
e memore del primo suo dovere
s'accinse a procurargli quel sollievo
che giunge quando un nodo ostile è sciolto;
perciò gli disse: «Vedo sul tuo volto
un'ombra che fatica a rischiararsi,
dunque ti prego, Eunèbete, consenti
che si dischiuda il dubbio ancora in boccio
e chiedi ciò ch'aneli di sapere
nel mentre ch'io mi verso un altro goccio».
«Io spesso vedo» cominciò il discente
«tra quanti danno orecchio ai miei sermoni,
alcuni che all'inizio son bramosi
di conoscenza, e ascoltano zelanti;
ma poi via via diventano nervosi,
insofferenti, ostili, bellicosi...
ed io son uno e loro sono tanti,
e divengon vieppiù pericolosi...
Allora non mi fermo a valutare
di tanto astio quale sia il motivo,
se si aggiri tra loro qualche furia
- l'orrida Lissa o Momo o Neikea
o Eris che dissemina discordia -
ma dico "Zeus mio, misericordia!"
e senza mele d'oro nella borsa
sopravanzo Atalanta nella corsa.
Ben lo sai tu, che giusto l'altro ieri,
quando la prima volta t'ho incontrato,
mi difendesti a sprezzo della vita
da quella trista folla inferocita!
Io non so quale nume t'ha mandato,
o congiunzione d'astri, o scritto fato,
ma so che senza il pronto tuo intervento
avrei preso ben altro che spavento!
Se dunque è questo il fato dei prolissi,
se il popolo tebano non onora
con corone di fiori e mirti e allori
la fronte di quegli aulici oratori
che scelgono di ornar con molti detti
gli altrimenti sintetici concetti,
ma con lividi e bozzi ed ematomi
inferti con bastoni o a nude mani;
e così gli ateniesi e gli spartani...
s'è tanto invisa alla nazione achea
l'antica arte della logorrea
che dà spessore ai detti dei sapienti
e illumina i discorsi dei potenti
come fa il sol nell'etere cilestro...»
«Tu chiedi» lo interruppe il suo maestro,
ch'era di Sparta e dunque era laconico,
«com'è che Eurompimèntideco Ionico
riempiva la sua borsa di piotte
e invece a te ti riempiono di botte!».
Così disse il Marpiònide, e l'alunno,
colpito da quel sunto si conciso,
pendulo il labbro e arrossicato il viso
non seppe argomentare né annuire;
così che toccò all'aio proseguire.



domenica 22 ottobre 2017

Oi sepolcroi, II

Lamento di Paracùlogo Marpiònide a Eunèbete di Chiaràtos.
II, vv. 67-131

Ove il Marpiònide ricorda l'amata moglie e il di lei padre.

***

«Tu vuoi ch'io rinnovelli quel dolore»
rispose Paracùlogo dolente
«ch'a lungo m'ha straziato il core e il resto,
quel male ch'io vorrei dimenticare
vuoi ch'adesso ti renda manifesto...
Quanto dolce sarebbe quel silenzio
che ad Arpocrate è caro, ed a me pure!
Ma cedere io debbo alla promessa,
ch'io feci nell'offrirti le mie cure,
di disvelarti i casi della vita...
e allora, orsù, facciamola finita:
or ti racconterò dei casi miei,
fintanto che sua luce il sole irradia
su questo sacro colle dell'Arcadia».
Qui si interruppe mesto il precettore
mentre un sospiro gli scassava il casso;
poi bevve lentamente un altro sorso
ed al triste racconto diede corso.
«Questa modesta lapide nasconde
le mai troppo rimpiante e care spoglie
che furono l'effigie di mia moglie.
Innanzi tempo la pretese l'orco,
poi che le Parche diedero sentenza
ch'ella era già vissuta a sufficienza.
Io, dall'infausto giorno di sua morte
- infausto specie a lei, poi che i suoi occhi,
fino a quel giorno a vigilare intenti
sui doni che Fortuna le avea dato,
furono agli ori suoi di colpo spenti
ed alle case e agl'orti ed agli armenti -
ogni primo del mese qui mi reco
ed omaggio la santa sua memoria,
che Giove Sempiterno l'abbia in gloria!
Cara alle dive Erinni, il nome suo
era Laskassia Pàllade, semenza
del prode Eurompimèntideco Ionico,
retore della scuola dei prolissi;
quella stessa da cui tu pure vieni
e che tanti oratori al mondo ha dato,
parchi d'idee ma prodighi di fiato.
Era costui campione di quell'arte
non solo in patria - dove ai miti Ioni
avea da tempo ormai rotto i cordoni
di loro borse, ché per non sentirlo
con oro e doni presero a blandirlo -
ma agli Eoli era noto parimenti
ed agli Achei ed alla stirpe dorica
per la fluente e stolida retorica.
Così tra questi popoli viaggiava
ed impartiva le sue reprimende;
ma non sostava a lungo, e le sue tende
d'albe vedevan giusto la seconda,
raramente la terza e mai la quarta:
prodiga Atene lo inviava a Sparta
perché godesse delle sue sentenze,
e poco dopo Sparta generosa
lo rimandava indietro, oppure a Tebe...
e cittadini e schiavi, e ricchi e plebe,
ognuno gli facea gentile omaggio
di pezzi d'oro e gli pagava il viaggio.
Così passava in Attica, in Beozia,
ed in Laconia, Argolide ed Epiro...
e insomma: se ne stava sempre in giro,
e grazie a questa sua perenne corsa
accresceva la fama e anche la borsa».



domenica 15 ottobre 2017

Oi sepolcroi, I

Lamento di Paracùlogo Marpiònide a Eunèbete di Chiaràtos.
I, vv. 1-66

Ove si narra del malcelato dolore di Paracùlogo e dei dubbi del prolisso Eunèbete.

***

All'ombra dei cipressi dietro l'urbe
che fan la guardia ai taciti sepolcri,
al sommo della solatìa collina
d'ove lo sguardo vàgola e sconfina
oltre il pianoro e il rivo e giunge al mare,
Eunèbete sedeva ad osservare
non la rara bellezza che Cibele
avea stillato a pieno in quella piaggia,
ma il suo maestro che libava lento,
con santa parsimonia e mano saggia,
un suo prezioso vino - nutrimento
di se medesmo e delle care spoglie -
sopra l'antica stele della moglie.
Non mostrava però quell'uomo santo
le sue strazianti, amare e certe doglie,
(di ciò s'avvide attonito l'alunno)
ma invece d'affidarle al triste pianto
le celava in un ghigno un po' contratto
che stravolgeva il volto addolorato
facendolo sembrare soddisfatto.
"Indizio certo d'un valente cuore,
che domina" si disse "aspro dolore!"
Commosso da cotanto sentimento,
Eunèbete s'alzò dal suo giaciglio,
mosso dal desiderio di sapere
la natura dei moti ch'al suo aio
donavano un aspetto tanto gaio
- lieto il sorriso e illuminato il ciglio -
mentre il suo cuore, lo sapeva bene,
si molcea nel dolore e nelle pene!
«Ti prego, Paraculogo, concedi
requie a quel duolo che t'opprime il volto
e pur s'ancor lo strazio il cor ti stringe
siedi e racconta ciò ch'al duolo attinge
e versa nei tuoi occhi un pianto asciutto;
ché nel racconto si consola il lutto.
Siedi e racconta a me, ch'io son bramoso
d'apprendere i tuoi santi interni moti;
ma non ti sembri il fare mio curioso
mosso da stravaganti intendimenti,
che s'io ti chiedo è per fornirti il destro
di farti di me alunno buon maestro.
Siediti all'ombra di quel sacro mirto
caro alla dea che le virginee forme
celò per breve tratto coi suoi rami
allorquando la spuma la depose
sui lidi citerei. Di lì si mosse
la callipigia, e diede amore al mondo,
e n'ebbe in cambio amore, e n'ebbe pene;
come ben sa chi amò, ch'amore e duolo
vanno allacciati sul medesmo suolo.
Siedi e racconta, ché l'antico tronco
che d'ombra ricoprì l'amata dea
si che né nume ne scorgesse il ciglio
né mortale - che fu lo strazio, quando
dell'incestuosa Mirra il figlio pianse,
tale che ne segnò l'eburnee gote -
del duolo di Citerea fe' tesoro
e dà agli amanti identico ristoro.
Raccontami, ch'ormai ti sei seduto
e le palme che muovi al mio cospetto
parlano più di quel che non hai detto
e dunque, come chiedi, starò muto».
Così si tacque Eunèbete prolisso,
mentre il rossor gli ricopria le gote,
d'aria e di suoni finalmente vòte.