venerdì 13 gennaio 2017

Ospiti illustri n° 33: Michelangelo Buonarroti

Michelangelo non ha mai scritto questo sonetto, ma avrebbe potuto farlo. Quello che Michelangelo ha fatto è stato scrivere una lettera a Tomaso de' Cavalieri, da Firenze il 28 luglio 1533. Una lettera che è già una poesia. 
Ho preso le parole e i concetti di quella lettera e ne ho fatto un sonetto. In calce ho trascritto la lettera originale e una mia traduzione nell'italiano di oggi.

***

S'io non credessi avervi facto certo
del grandissimo amore ch'io vi porto,
non sarea maraviglia il gran sospecto,
poi ch'io non scrivo, che nel cor v'è sorto.

Ma di tal cose ormai son fatto esperto
andando l'altre e questa pur a storto,
perch'io lo stesso dentro al core avverto
dacché quel foco in me non è mai morto.

Ma ssia come si vuole, e saria acerba
del corpo e più dell'anima la sorte,
che questa più che quei nutre e conserba

il nome dolce vostro, e tanto forte,
nel mentre la memoria mi vi serba,
ch'io non ho noia né timor di morte.

Se l'ochio avesse in sorte
d'aver la parte sua, com'io vorrei,
in quale stato, o Dio, mi troverrei!
















S(ignio)re mio caro,
se io non avessi creduto avervi in Roma facto certo del grandissimo, anzi smisurato amore che io vi porto, non mi sare’ paruta cosa strana, né mi sarea maraviglia il gran sospecto che voi mostrate per la vostra avere avuto, per non vi scrivere, che io non vi dimentichi. Ma non è cosa nuova, né da pigliarne ammiratione, andando tante altre cose al contrario, che questa vadi a rrovescio anch’ella perché quello che Vostra S(igniori)a dice a me, io l’arei a dire a quella; ma forse quella fa per tentarmi o per riaccender nuovo et maggior foco, se maggior può essere. Ma ssia come si vuole io so bene che io posso a quell’ora dimenticare il nome vostro, che ‘l cibo di che io vivo; anzi posso prima dimenticare il cibo di che io vivo, che nutri[s]ce solo il corpo infelicemente, che il nome vostro, che nutriscie il corpo e l’anima, riempiendo l’uno e l’altra di tanta dolcezza, che né noia né timor di morte, mentre la memoria mi vi serba, posso sentire. Pensate, se l’ochio avessi ancora lui la parte sua, in che stato mi troverrei.


Signore mio caro,
se io non avessi creduto di avervi reso sicuro, a Roma, del grandissimo, anzi smisurato amore che io vi porto, non mi sarebbe sembrato strano, né mi sarei meravigliato per il grande dubbio che voi dite, nella vostra lettera, di avere avuto, per il fatto che non avendovi scritto, io possa dimenticarvi. Ma non è una novità, né bisogna stupirsene, che andando tante altre cose al contrario, anche questa vada a rovescio, perché quello che Vostra Signoria dice a me, io l’avrei potuto dire a Voi; ma forse lo dite per tentarmi o per riaccendere un nuovo e più grande fuoco, se mai ne può esistere uno maggiore. Ma sia come sia, io so bene che potrò dimenticare il nome vostro quando dimenticherò il cibo che mi serve per vivere; anzi posso prima dimenticare il cibo, che nutre solo il corpo infelicemente, che il nome vostro, che nutre il corpo e l’anima, riempiendo l’uno e l’altra di tanta dolcezza, che non mi fa sentire né la noia né la paura della morte, fintanto che vi conservo nella mia memoria. Pensate, se anche gli occhi avessero la loro parte, in che stato mi troverei.

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