Oi sepolcroi

Lamento di Paracùlogo Marpiònide a Eunèbete di Chiaràtos.


All'ombra dei cipressi dietro l'urbe
che fan la guardia ai taciti sepolcri,
al sommo della solatìa collina
d'ove lo sguardo vàgola e sconfina
oltre il pianoro e il rivo e giunge al mare,
Eunèbete sedeva ad osservare
non la rara bellezza che Cibele
avea stillato a pieno in quella piaggia,
ma il suo maestro che libava lento,
con santa parsimonia e mano saggia,
un suo prezioso vino - nutrimento
di se medesmo e delle care spoglie -
sopra l'antica stele della moglie.
Non mostrava però quell'uomo santo
le sue strazianti, amare e certe doglie,
(di ciò s'avvide attonito l'alunno)
ma invece d'affidarle al triste pianto
le celava in un ghigno un po' contratto
che stravolgeva il volto addolorato
facendolo sembrare soddisfatto.
"Indizio certo d'un valente cuore,
che domina" si disse "aspro dolore!"
Commosso da cotanto sentimento,
Eunèbete s'alzò dal suo giaciglio,
mosso dal desiderio di sapere
la natura dei moti ch'al suo aio
donavano un aspetto tanto gaio
- lieto il sorriso e illuminato il ciglio -
mentre il suo cuore, lo sapeva bene,
si molcea nel dolore e nelle pene!
«Ti prego, Paraculogo, concedi
requie a quel duolo che t'opprime il volto
e pur s'ancor lo strazio il cor ti stringe
siedi e racconta ciò ch'al duolo attinge
e versa nei tuoi occhi un pianto asciutto;
ché nel racconto si consola il lutto.
Siedi e racconta a me, ch'io son bramoso
d'apprendere i tuoi santi interni moti;
ma non ti sembri il fare mio curioso
mosso da stravaganti intendimenti,
che s'io ti chiedo è per fornirti il destro
di farti di me alunno buon maestro.
Siediti all'ombra di quel sacro mirto
caro alla dea che le virginee forme
celò per breve tratto coi suoi rami
allorquando la spuma la depose
sui lidi citerei. Di lì si mosse
la callipigia, e diede amore al mondo,
e n'ebbe in cambio amore, e n'ebbe pene;
come ben sa chi amò, ch'amore e duolo
vanno allacciati sul medesmo suolo.
Siedi e racconta, ché l'antico tronco
che d'ombra ricoprì l'amata dea
si che né nume ne scorgesse il ciglio
né mortale - che fu lo strazio, quando
dell'incestuosa Mirra il figlio pianse,
tale che ne segnò l'eburnee gote -
del duolo di Citerea fe' tesoro
e dà agli amanti identico ristoro.
Raccontami, ch'ormai ti sei seduto
e le palme che muovi al mio cospetto
parlano più di quel che non hai detto
e dunque, come chiedi, starò muto».
Così si tacque Eunèbete prolisso,
mentre il rossor gli ricopria le gote,
d'aria e di suoni finalmente vòte.
«Tu vuoi ch'io rinnovelli quel dolore»
rispose Paracùlogo dolente
«ch'a lungo m'ha straziato il core e il resto,
quel male ch'io vorrei dimenticare
vuoi ch'adesso ti renda manifesto...
Quanto dolce sarebbe quel silenzio
che ad Arpocrate è caro, ed a me pure!
Ma cedere io debbo alla promessa,
ch'io feci nell'offrirti le mie cure,
di disvelarti i casi della vita...
e allora, orsù, facciamola finita:
or ti racconterò dei casi miei,
fintanto che sua luce il sole irradia
su questo sacro colle dell'Arcadia».
Qui si interruppe mesto il precettore
mentre un sospiro gli scassava il casso;
poi bevve lentamente un altro sorso
ed al triste racconto diede corso.
«Questa modesta lapide nasconde
le mai troppo rimpiante e care spoglie
che furono l'effigie di mia moglie.
Innanzi tempo la pretese l'orco,
poi che le Parche diedero sentenza
ch'ella era già vissuta a sufficienza.
Io, dall'infausto giorno di sua morte
- infausto specie a lei, poi che i suoi occhi,
fino a quel giorno a vigilare intenti
sui doni che Fortuna le avea dato,
furono agli ori suoi di colpo spenti
ed alle case e agl'orti ed agli armenti -
ogni primo del mese qui mi reco
ed omaggio la santa sua memoria,
che Giove Sempiterno l'abbia in gloria!
Cara alle dive Erinni, il nome suo
era Laskassia Pàllade, semenza
del prode Eurompimèntideco Ionico,
retore della scuola dei prolissi;
quella stessa da cui tu pure vieni
e che tanti oratori al mondo ha dato,
parchi d'idee ma prodighi di fiato.
Era costui campione di quell'arte
non solo in patria - dove ai miti Ioni
avea da tempo ormai rotto i cordoni
di loro borse, ché per non sentirlo
con oro e doni presero a blandirlo -
ma agli Eoli era noto parimenti
ed agli Achei ed alla stirpe dorica
per la fluente e stolida retorica.
Così tra questi popoli viaggiava
ed impartiva le sue reprimende;
ma non sostava a lungo, e le sue tende
d'albe vedevan giusto la seconda,
raramente la terza e mai la quarta:
prodiga Atene lo inviava a Sparta
perché godesse delle sue sentenze,
e poco dopo Sparta generosa
lo rimandava indietro, oppure a Tebe...
e cittadini e schiavi, e ricchi e plebe,
ognuno gli facea gentile omaggio
di pezzi d'oro e gli pagava il viaggio.
Così passava in Attica, in Beozia,
ed in Laconia, Argolide ed Epiro...
e insomma: se ne stava sempre in giro,
e grazie a questa sua perenne corsa
accresceva la fama e anche la borsa».
Qui tacque Paracùlogo, notando
la fronte corrugata del suo allievo;
e memore del primo suo dovere
s'accinse a procurargli quel sollievo
che giunge quando un nodo ostile è sciolto;
perciò gli disse: «Vedo sul tuo volto
un'ombra che fatica a rischiararsi,
dunque ti prego, Eunèbete, consenti
che si dischiuda il dubbio ancora in boccio
e chiedi ciò ch'aneli di sapere
nel mentre ch'io mi verso un altro goccio».
«Io spesso vedo» cominciò il discente
«tra quanti danno orecchio ai miei sermoni,
alcuni che all'inizio son bramosi
di conoscenza, e ascoltano zelanti;
ma poi via via diventano nervosi,
insofferenti, ostili, bellicosi...
ed io son uno e loro sono tanti,
e divengon vieppiù pericolosi...
Allora non mi fermo a valutare
di tanto astio quale sia il motivo,
se si aggiri tra loro qualche furia
- l'orrida Lissa o Momo o Neikea
o Eris che dissemina discordia -
ma dico "Zeus mio, misericordia!"
e senza mele d'oro nella borsa
sopravanzo Atalanta nella corsa.
Ben lo sai tu, che giusto l'altro ieri,
quando la prima volta t'ho incontrato,
mi difendesti a sprezzo della vita
da quella trista folla inferocita!
Io non so quale nume t'ha mandato,
o congiunzione d'astri, o scritto fato,
ma so che senza il pronto tuo intervento
avrei preso ben altro che spavento!
Se dunque è questo il fato dei prolissi,
se il popolo tebano non onora
con corone di fiori e mirti e allori
la fronte di quegli aulici oratori
che scelgono di ornar con molti detti
gli altrimenti sintetici concetti,
ma con lividi e bozzi ed ematomi
inferti con bastoni o a nude mani;
e così gli ateniesi e gli spartani...
s'è tanto invisa alla nazione achea
l'antica arte della logorrea
che dà spessore ai detti dei sapienti
e illumina i discorsi dei potenti
come fa il sol nell'etere cilestro...»
«Tu chiedi» lo interruppe il suo maestro,
ch'era di Sparta e dunque era laconico,
«com'è che Eurompimèntideco Ionico
riempiva la sua borsa di piotte
e invece a te ti riempiono di botte!».
Così disse il Marpiònide, e l'alunno,
colpito da quel sunto si conciso,
pendulo il labbro e arrossicato il viso
non seppe argomentare né annuire;
così che toccò all'aio proseguire.
«Orbene, questa sorta di miracolo,
ostico pure a Giove onnipotente,
era dovuto assai semplicemente
alle parole astruse d'un oracolo,
parole misteriose, pronunciate
dal vate Anacaprìnide di Lèmmico
invaso dallo spirito di Apate:
"chi mai dovesse uccidere costui,
sappia che morirà prima di lui!".
L'oracolo, in effetti, era contorto;
però, sebbene attoniti, gli achei
(giacché nessuno ambiva ad esser morto)
nel dubbio gli mollavano gli sghei.
Vi fu chi dubitò del vaticinio;
ed anzi pure io, per dirla tutta,
m'immaginai che fossero in combutta
e che la storia fosse un latrocinio...
Tu sai come si dice: "a pensar male
si fa sicuramente un gran peccato,
però il più delle volte si indovina!".
Ahi, quanto spesso il volgo al male inclina!
Ché invece il vaticinio era azzeccato,
e il lasso Eurompimèntideco morse
così com'era stato a lui predetto,
quando tra le portate d'un banchetto
morse una succulenta ala di pollo
e un osso si ficcò traverso il collo.
Così passò lo Ionico prolisso:
strozzato, al pari del Nemeo leone,
dall'arto abbrustolito d'un cappone...
e certo non v'è dubbio che il pennuto
fosse già in precedenza deceduto».
Gli occhi socchiuse il vecchio, ed una prece
sommessa gli fiorì lungo le labbra,
ma tanto lieve che si liquefece
toccando il vaso, che toccò la bocca,
che avea spillato il vino dalla brocca.
Poi, grazie al sacro influsso del licore,
riprese a raccontar con più vigore.
«Gelos e Fama, Nemesi ed Euthymia
affidarono ai venti la notizia;
Euro e Noto, Zefiro e Borea
la portarono là dove il prolisso
avea fatto di sé triste nomea;
e non si vide luogo, urbano o agreste,
parco di giochi o povero di feste.
Mentre gli achei cedevano ai bagordi
da Cefalonia fino all'Ellesponto,
io solo fui colui che tenne in conto
il duolo di Laskassia giovinetta;
così lasciai le feste, e in tutta fretta
corsi da lei per asciugarne il pianto.
La trovai sola, e mi sedetti accanto.
"O tu, che per antitesi dimostri
le grazie d'Afrodite e la bellezza,
tu che rubi il profilo ai curvirostri
ed il Parnaso eguagli in leggerezza,
tu ch'avida d'amor taci e non mostri
dell'alma tua le doti e la ricchezza,
lascia ch'io mi disveli e alfine tu
giudica il peso della mia virtù!".
Così le dissi, e presa la sua mano
l'avvicinai al core palpitante,
ché ne sentisse l'intimo sconquasso.
Vinta fu la fanciulla, e nel deliquio
la mano sua cedette e cadde in basso,
così che del mio cor non fe' esperienza;
ma un sospiro provò ch'avea compreso
dell'amor mio e consistenza e peso!».
Socchiuse gli occhi allora il precettore,
mentre un sorriso gli allargava il volto,
e sarebbe rimasto in tale guisa
se Eunèbete, tradendo i modi suoi,
non avesse soggiunto un breve: «E poi?».
Si ricompose il saggio a quel richiamo
e tramutò il sorriso in un cipiglio,
nel mentre un'ombra ne velava il ciglio.
«E poi» soggiunse grave «ci sposammo
e feci ingresso lieto in quel palazzo.
Già mi vedea padrone, e invece... un pazzo,
tale io fui credendo che Laskassia
circonfusa d'amore e di modestia
avrebbe atteso solo al focolare,
seduta nel suo canto accanto ad Estia,
lasciando a me la cura d'ogni affare.
Ché invece si mostrò per quello ch'era:
sorella di Tisifone e Megera!».
Così disse il maestro, e quell'imago
di tenebra, d'orrore e di spavento
impressionò a tal punto il suo discente
che pur provando a profferire accento
aprì la bocca ma non disse niente.
«I primi tempi invero fu gentile»
riprese Paracùlogo frattanto
«e mi riempiva spesso di attenzioni:
ogni momento mi restava accanto,
bramosa di continuo del mio bene
che io le concedea di tanto in tanto.
Ma lei non si saziava e mi seguiva
sospinta dal desio che aveva in petto
e ovunque io mi trovassi nel palazzo
mi raggiungea dicendo "dammi affetto!".
E non che io non gliel volessi dare,
ma "non di solo pane vive l'uomo",
e questa sua carnale bramosia
mi distoglieva dalla fattoria
e più dai necessari abboccamenti
ch'io solea aver coi servi e gli attendenti.
Ma se fornivo lumi all'ortolano
sulla coltivazione del pisello,
ecco che lei spuntava sul più bello;
e se davo una mano al tagliaboschi
per infilare il manico alla scure,
tra gli alberi mostravasi ella pure;
se mi appartavo con un mietitore
per lavorare un poco di forconi,
me la trovavo sempre tra i covoni...
Così, quando mi venne incontro un giorno
mentr'ero in compagnia dello stalliere,
le urlai: "Perché mi ronzi sempre intorno?
Ritornatene a casa, per piacere!"
Ma subito compresi dal suo sguardo
che il tono che avea usato era un azzardo,
perciò soggiunsi piano, a voce blanda:
"Laskassia mia, non fare quella faccia!
Vuoi forse che il tuo Pary si dispiaccia?
Ricorda che son io quei che comanda!
Tu donna sei, perciò cosa pretendi?
Rincasa e all'opre femminili intendi.
È il tuo destino stare sottomessa,
e se tal condizion ti sembra dura,
pensa che l'ha voluta la natura.
Osserva la gallina e vedi ch'essa
si sottomette al gallo ed è contenta,
e così la coniglia e la giumenta
soggiacciono al coniglio e allo stallone.
Lo capisci da te quant'è sbagliato
opporsi a quella norma del creato
che ha voluto te serva e me padrone.
Dunque, obbedisci: volgimi le spalle,
marcia spedita ed esci dalle stalle".
Dimmi, non fu una bella allocuzione?
Chiara, diretta, semplice e spedita:
io credo che nessuno avesse udita
né pria né poscia simile orazione.
Ma, forse perché figlia d'un prolisso,
ella non la comprese, e inizialmente
rimase ferma senza dire niente
lasciando su di me lo sguardo fisso,
rigida al pari d'uno stoccafisso;
al ch'io, pien di premura e in buonafede,
le chiesi: "Amore mio, che ti succede?".
Non l'avessi mai detto! Al mio richiamo
si ridestò Laskassia all'improvviso
e mentre l'ira le addolciva il viso
facendola sembrare una Gorgone
s'impossessò veloce d'un bastone
e urlando forte al pari e più d'Achille
s'avanzò verso me tra le scintille
che uscivano dagli occhi suoi di pazza
e d'ovunque colpisse la sua mazza.
Quel che successe allora puoi capirlo
tu che più volte l'hai sperimentato,
tu che veloce hai corso, minacciato
con spranghe, verghe, pertiche e randelli...
anche s'io credo ben che tutti quelli
insieme non farebbero la clava
che quell'indemoniata roteava.
Rapida giunse, ed io ne ricevetti
da riempire un sacco ed una sporta
pria che riuscissi a prendere la porta
che dalle stalle dava sullo spiazzo
e da questo alle stanze del palazzo,
e quando vidi ch'ella pur vi giunse
io, più veloce d'Erme e pur senz'ale,
m'ascosi sotto il talamo nuziale
ove, in virtù dell'eccessiva stazza,
non mi potea raggiunger quella pazza!
Ma che sgomento fu sentirle dire
"o presto o tardi dovrai pur uscire!".
Tre volte Febo dardeggiò sui campi
coi suoi robusti raggi, ed altrettante
in bianche vesti lo seguì Selene,
mentr'io giacea lassotto in preda ai crampi
ed ella pur sul talamo giacente
si rotolava in sadico trastullo
agendo su di me siccome rullo!
Ah quante e quante volte in quel frangente
levai il mio grido a Giove onnipotente
che desse fine a quella mia disdetta
con l'uso accorto d'una sua saetta!
Ma forse il dio non stava in ciel assiso,
distratto appresso a qualche sua ninfetta!»
Qui il mentore si tacque d'improvviso,
ché Lissa lo spingea ad andare avante
ma il fiato a tal desio non fu bastante:
o fosse il dio a punire la sua pecca,
o fosse ch'egli avea la gola secca,
qual emulo di Proteo si scosse
e rapido mutò la foga in tosse,
il collo in otre, gli occhi in due bracieri,
e grosso e smosso e sposso e rosso in viso
sembrò bussare all'uscio dell'Eliso...
ma lo salvò Dioniso potente
che, con l'aiuto d'un bicchier di vino,
insieme gli placò l'ira e il raspino.
Eunèbete, che avea temuto il peggio,
gioì di quella vista e pur fu mogio:
ché, se vedea salvarsi il suo maestro,
pure vedea svanire il necrologio
che in quel frangente breve e concitato
avea per un istante pregustato.
Ma se ne consolò, poiché s'avvide
che potea forse cogliere il momento
per sciorinare un lungo suo intervento.
E cominciò: «Maestro, i tuoi martiri
ti fanno pari a Socrate negletto
di cui ti narrerò la triste storia.
Orbene» aggiunse «sappi che una volta...»
Ma non continuò, ché il precettore
gli mise in mano un vaso di licore
e, pur se ancor la faccia avea stravolta,
«Bevi» gli disse ruvido «ed ascolta!».
E tanto fu il comando risoluto
ch'Eunèbete obbedì e rimase muto.
«Al quarto giorno sotto quel giaciglio»
riprese l'aio, pur con minor lena,
«quando ormai respiravo a malapena
e un'ombra nera mi velava il ciglio,
"Aiutami" invocai "Areia Atena!
Giudica tu se il mio comportamento
merita questo iniquo trattamento,
e se così non è, com'io sospetto,
degnati di fornirmi il tuo intervento
si ch'io possa sortir da sotto il letto".
Provò pietà di me la Glaucopis
e poi ch'ebbe lasciato il sacro Olimpo
accompagnata dalle sue tre ancelle
m'apparve sotto forma di civetta
appollaiata sulla colonnetta;
mentre le ancelle - ma il perché non so -
si andarono a posare sul comò.
"Marpiònide" mi disse "i tuoi lamenti
pari ti fanno a quei ch'ebbero in sorte
d'esser già oppressi dalla tua consorte
e più dal suo molesto genitore
ch'ei pure in tale arte era dottore.
Ma il tempo è giunto, ed io vendicherotti
e assieme a te giustizia avran coloro
che gli animi all'udirli ebbero rotti.
Sorgi nascosto da velata nube
senza timore, ch'io ti guiderò
mentre le ancelle mie parlan d'amore
con la distratta figlia del dottore..."
Con strane arti l'aere poi ammaliò
dicendo "ambarabà, ciccì e coccò".
E rapida una nube si diffuse
per quattro palmi sopra il pavimento
ed ogni chiaro oggetto circonfuse
nel suo lattiginoso ascondimento.
Al che le mie speranze disilluse
rinacquero ad intrepido ardimento...
ma pur se pungolato dalla fretta
non mi scordai la vergine civetta.
"O tessitrice d'alta strategia,
benché disteso, a te mi genufletto,
che hai concepito opaca e fosca via
al lume del tuo fulgido intelletto!
Se più d'oscura selva appare oscura
l'oscura nube, io pur non ho paura,
ed anzi io v'entro pieno di disio:
Io già lo fece, ed or lo farò anch'io!"
Così le dissi, e rapido e gagliardo
in un istante sgusciai via dal letto
movendomi con passo di leopardo
da prodigiosa nuvola protetto;
ma, ahimè, non diedi tempo al caro nume
di farsi di me stesso e faro e lume,
perciò, per nebbia o foga o mala sorte,
picchiai col cranio al muro, e pure forte!
Ahi quanto, a dir quant'era cosa dura,
alta dal petto mi fuggì una voce!
Mai s'era udita simile in natura
e mai null'altra sarà tanto atroce
se l'eco di quel verso ancor risuona
dal sacro Olimpo fino all'Elicona!
Laskassia, ch'era fino a quel momento
rapita dall'itonio incantamento,
si scosse immantinente a quel romore,
di me s'avvide e d'ascoltar cessò
le querule civette sul comò;
poi rapida discese giù dal letto
urlando "non mi scappi, maledetto!"
Io, che d'istinto verso lei mi volsi,
m'avvidi di sua rabbia, e ch'era piena,
perch'io ratto pregai: "Aita, Atena,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi!"
La dea, che azzurri gli occhi in giro muove,
mi s'appressò e "Marpiònide" mi disse
"non fa per te di rimanerti ancora,
ché se t'acchiappa la furiosa Aletto
in men che non si dica ti divora!
Or dunque sorgi e lesto vai sul tetto,
dove non giungerà l'irata Erinni
ché alla sua stazza è troppo un tal periglio.
Accetta dunque adesso il mio consiglio,
e appena conquistata avrai la vetta
siedi sul colmo e speranzoso aspetta,
ch'io ti raggiungerò con le mie ancelle
e con formule arcane e con magia
ti farò diventare come quelle
e avrai le ali per fuggire via!
Or più non indugiare: corri lesto,
ch'io vado, ma - stai certo - torno presto".
Rapida s'involò la diva alata,
forse lei pure un po' preoccupata
dall'imminente arrivo della furia
che pari ad un leone di montagna
mostrava chiara all'occhio la goduria
d'essere a un passo o due dal suo disio
e urlavami da presso "ormai sei mio!"
Filippide non corse più veloce
quell'assolato giorno a Maratona
di quanto io feci allora in quel frangente;
e s'egli alfine morse, io pur gemevo,
e non soltanto per il gran periglio
d'essa che dietro urlava "ora ti piglio!",
ma pur per l'altra, che m'avea predetto
di far di me un pennuto sopra il tetto;
e tale prospettiva, onestamente,
non mi piaceva troppo... anzi, per niente!
Ma che potevo fare? In quel momento
non potevo che andare in tutta fretta
incontro al mio destino da civetta!
Giunsi infine sul tetto, dove almeno
pensavo di trovar sicuro porto
da quella furia che mi volea morto,
giacché la dea m'avea pronosticato
che non avrebbe osato l'arduo passo
con la zavorra grave del suo grasso.
Ora: o che la dea s'era sbagliata;
o che la cosa era premeditata;
io questo non lo so, ma so soltanto
che in un istante me la vidi accanto,
inferocita al pari e più d'un'orsa!
Ratto ripresi la mia folle corsa
lungo le falde, e lei mi stava dietro...
e credimi, non so come facesse
a correr sulle tegole sconnesse!
Correva appresso a me, la maledetta,
mentr'io gridavo "O dea, fammi civetta!
O pur beccaccia, o pappafico, o tordo..."
Ma Atena non rispose. Io, trafelato,
percorsi tutto il tetto e giunsi al bordo
e in quell'istante estremo, disperato,
pensai veloce se buttarmi sotto
e uscirne morto o tutto quanto rotto,
o se invece aspettar la mia consorte
e uscirne rotto oppur pestato a morte.
"Se mi rannicchio e il cranio resta illeso,
forse non muoio e resto solo offeso..."
Così pensai, e arreso al mio destino
io mi disposi a sopportar l'ingiuria
dei colpi di Laskassia e la sua furia.
Ed ella alfine giunse, e appena vide
ch'io non avea nessuna via di scampo
frenò improvvisamente la sua foia,
rise felice e con negli occhi un lampo
batté le mani e fe' un salto di gioia...
ma le si spense agli occhi il luccichio
udendo l'improvviso scricchiolio
del tetto che cedea sotto il suo peso.
Era una bella e solida struttura,
ma il salto fu una prova troppo dura!
S'udì di colpo un fragoroso botto
e la meschina rovinò di sotto:
e poco ci mancò che per quel crollo
anch'io cadessi e mi rompessi il collo!»
Eunèbete, che fino a quel momento
avea seguito concentrato e attento
il tragico racconto del suo aio,
udendo di quel tonfo ebbe spavento
e sobbalzò, visibilmente scosso,
con gli occhi luccicanti e il viso rosso.
Poi, preda del suo solito desiro,
provò ad alzarsi e profferir parola,
ma sopraggiunse forte un capogiro
che gli fermò la voce nella gola,
e anche le gambe opposero un rifiuto;
così che ratto ritornò seduto.
"Ecco quello che avvien per avventura"
si disse "se ti vince la paura!"
E in tale errore non pensò il meschino
di dar la colpa invece al troppo vino
che, preso dal racconto, avea libato:
ch'ei non potea vedere il suo incarnato
da roseo tramutato in paonazzo.
Così, per superare l'imbarazzo
e asconder dei ginocchi quel tremuoto
prima di darlo all'aio suo a vedere,
cercò un po' di coraggio nel bicchiere;
e si stupì di ritrovarlo vuoto,
avendolo riempito già sei volte...
ma non per questo il giovine ristette:
"sei libagioni, invero, non son molte:
abbiamo fatto sei, facciamo sette!"
E intanto ch'ei teneva questo conto,
riprese Paracùlogo il racconto.
«Mentre consideravo l'accaduto
dal trave sopra cui stavo seduto,
mi svolazzò d'intorno una civetta;
al ch'io, temendo ch'ella fosse il nume
giunto per darmi e becco e penne e piume,
veloce la pregai: "Atena, aspetta,
allontana da me questa disdetta,
ch'io posso conservare la mia imago
essendo ormai defunta la virago!".
La strigide, sentendo il tono grave,
s'appollaiò pur essa sulla trave
fissandomi con gli occhi suoi lucenti;
e mentr'io mi torcevo tra i tormenti
"Tranquillo," mi rispose "io non son quella,
io della diva son l'umile ancella.
Pur già tu mi vedesti, or non è tanto,
su quel comò, con le sorelle accanto.
Mi manda a te la dea dal sommo ingegno
per dirti giustappunto proprio quello,
ch'ella non può mutarti in un uccello
giacché con sé la volle il Dio tonante
con gli altri dei celesti ad un convegno".
Qui si tacque un istante l'animale,
gli occhi mosse d'intorno un po' esitante
e, ascosto il picciol capo sotto l'ale,
aggiunse, con la voce bassa e scaltra:
"La verità, mortale, è invece un'altra:
più che celeste il suo convegno è rosa,
ch'ella oggidì ha un incontro assai galante
con un ginnasta giovane ed aitante!
Non che ci possa fare chissà cosa,
giusto un bacetto, al più una pomiciata...
ch'ella deve restarsene illibata
e dunque sarà sterile il consesso!
Ma lei quello che può lo fa lo stesso,
quell'infelice, e almeno si diletta
a fare un pochettino la civetta".
Risollevò la testa l'uccellino
e mentre mi faceva l'occhiolino
ricominciò a parlare a voce piena:
"Dunque, mortale, più non darti pena
ché non ti tocca di mutar sembiante;
ed anzi, non mostrarti titubante
e ringrazia a dover la diva Atena".
Udendo il sacro uccel darmi notizia
di quell'inaspettata scappatoia
fu tale dentro al core la letizia
ch'io quasi feci un salto dalla gioia...
ma poi, considerati i precedenti,
restai seduto e m'atteggiai altrimenti.
"O messaggera di novelle liete,
per ringraziarti come si compete
rivelami" le dissi "il nome tuo
e quello delle alate tue sorelle
ch'io voglio ringraziare pure quelle
ed osannare sempre nei miei carmi
con voi la dea che un dì volle ascoltarmi".
Rispuosemi la strigide parlante:
"Grazia è la primogenita sorella
e la seconda chiamasi Graziella,
ed io che son la terza, e a te davante
ormai da un pezzo strepito e svolazzo,
sono detta da tutti Grazie Tante.
V'è pure chi mi chiama in altro modo...
però, suvvia, non allunghiamo il brodo!"
"Grazie" le dissi allora "Grazie Tante;
e ringraziami pure la dea madre,
e le sorelle, e tutto il parentato
pel grande aiuto che m'avete dato!"
Veloce s'involò la pia civetta
mentr'io, rimasto solo sulla vetta,
mossi lo sguardo a quanto avea d'intorno.
Volgeva omai alla fine il mesto giorno;
rapida si fuggìa la diva Emera,
mentre tra i primi veli della sera
apparivano già le prime stelle
guidate dalle esperidi sorelle
e il mondo rispondeva al lor passaggio
con fiaccole lucenti e con lanterne
quasi a voler sfidar le luci eterne
nel ripeterne in terra il paesaggio.
Io, picciol punto perso nel creato,
dal trave su cui stavo appollaiato
guardavo e campi e boschi e vigne e prati
e villici e pastori indaffarati
a ricondurre mandrie e greggi e armenti...
e pur se ancora un poco frastornato
compresi quanto avevo ereditato».
(continua)



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